venerdì 9 luglio
La Tenzone
di Annalisa Pardi
Illustrazione di Elena Rossi AKA Ilgeko
sabato 10 luglio
Finché venne sera
di Sergio Costanzo
Illustrazione di Elisabetta Cardella
domenica 11 luglio
MASKA
di Giulia Gennaro
Illustrazione di Giada Fedeli (gammaphi)
lunedì 12 - venerdì 16 luglio
L'Aperitivo
di Anna Salvaje
Illustrazione di Lisa Marie Järlborn
Prima del temporale
di Maria Cristina Impagnatiello
Illustrazione di Giada Matteoli
Il mare nel corpo
di Alessandro Scarpellini
Illustrazione di Diego Gabriele
domenica 18 luglio
La star
di Fabrizio Bartelloni
Illustrazione di Nico Malvaldi
LA TENZONE
di Annalisa Pardi
Illustrazione di Elena Rossi AKA Ilgeko
“Cupio dissolvi.”
La donna gli stava di fronte, in una singolar tenzone.
A vederla così, sembrava più una combattente che una placida signora di mezza età. Era bianca come la spuma infranta contro lo scoglio scabro di Marina di Pisa, e vermiglia sulle labbra, simili al rosseggiare d’un ippocampo.
Nuda e flessuosa, agile nel profilo e snella alla maniera d’un levriero dalle reni falcate, tingeva della luce della sua nudità la stanza invasa dal tramonto.
Portava i capelli intrecciati in una macchinosa torre di forcine che il poeta stesso, amando le complicazioni, aveva ideato per lei poco dopo aver fatto l’amore.
Quel pomeriggio il sesso era stato insolitamente dolce, quasi un respiro che dalle bocche aveva pervaso le anime. Il piacere aveva portato con sé una violenta brama di morte, una voluttà d’annientamento cupa e libidinosa, un vortice di sofferenza e godimento che neppure mille scudisci avrebbero potuto provocare.
Provava lei l’orgasmo? — Se lo chiedeva spesso Gabriele.
Questa incertezza minava segretamente la sua spavalderia, lacerava a tratti il senso di superiorità che come un magnifico doppelgänger lo seguiva sempre da vicino.
Aveva provato l’orgasmo? Non voleva chiederle, non sapeva capire. Proprio durante la mattina aveva utilizzato quel termine sconcio e potente, ‘orgasmo’, per designare l’estro irruento delle onde che a Bocca d’Arno si frangevano sulla roccia. Anche quello era un amplesso, una superba tenzone tra la terra e il mare; anche il mare aveva il suo bianco sperma, per fecondare di sale e di forza lo scoglio e la terra.
E tuttavia l’onda salmastra non avrebbe mai avuto il dubbio della propria dirompente violenza: provava lei l’orgasmo?
Il pomeriggio aveva portato lo scirocco, e l’odore dei cavalli bradi. La pineta esalava sospiri di resine, ma dopo il pranzo c’era poco da scrivere; il caldo e il sonno vincevano ogni ispirazione. Era bello starsene muti a contemplare gli alberi piegarsi, il mare di lontano scrosciare. Quasi la voce umana pareva rompesse un incanto antichissimo. Per questo si camminava in punta di piedi, come ebbri, mentre di lontano i pescatori tornavano a riva gridando successi o sconfitte. I pesci agonizzavano nelle reti, e tutto odorava di morte. Quell’odore per lui diventava eccitante. Il suo sesso si alzava con prepotenza, ogni volta — e accadeva spesso — che pensava alla morte.
Così quel pomeriggio.
Lei giocava alla preda, e come al solito era stata accondiscendente su ogni aspetto. Si conoscevano così bene, ormai.
Erano rimasti in silenzio, sotto le lenzuola tenui, pallide di trama e di consistenza, a vedere il tempo involarsi, a contemplare le loro mani congiunte, a solleticarsi i peli, a mordicchiarsi. Per due volte Gabriele aveva tentato di parlare, di dirle quanto sentisse aleggiare profondo il tocco del nulla, ma Eleonora gli aveva appoggiato sulle labbra un polpastrello che odorava del suo corpo.
“Zitto, non parlare. Non senti che quest’Eden, questa Marina dorata, ti porterà parole e suoni nuovi?” Ma non ora, adesso taci.
Era una guerra, spesso negli anni lo avevano ammesso sorridendosi appena, certi che l’insanità mentale avrebbe potuto facilmente scalzare per sempre quelle brevi tregue che talvolta, dopo l’amplesso, si stipulavano tra loro.
Ma provava lei l’orgasmo?
Il poeta l’aveva guardata con passione, a lungo. Eppure bella non era. Andava saputa guardare. Ci voleva arte anche solo per contemplarla. In sovrappiù, era così vecchia. Le rughe le solcavano la fronte pallida, tagliavano il suo volto scomponendolo in una lunga fenditura — di modo che una parte restava in ombra mentre l’altra sfolgorava come la lamiera dell’aeroplano all’alba.
Le ore erano colate via.
Gabriele smaniava, voleva gettarsi alla brezza, al vento, per fondersi con il tramonto e sentire i brividi del sale sulla pelle. Voglio vedere il funerale del sole. Ma la compagna non aveva nessuna voglia di uscire, quella sera — e aveva improvvisato una piccola scena, lì, all’ingresso della Villa delle Tempeste.
Capricciosa e mutevole, da grande attrice quale era, si era spogliata nuda e si era appoggiata alla porta, serrandola con il suo corpo.
Ora tutta la stanza, tutta la casa, tutto il mondo, odorava della sua carne maestosa. Quel richiamo giocoso e desolante insieme sfidò ancora una volta il poeta.
“Che cerchi ancora?”, provò a dirle lui, sfiancato. Il sacrificio del sole lo chiamava a sé, ma la donna gli ostruiva il passaggio verso la libertà. I seni protesi allettarono le sue labbra, le mani affondarono recalcitranti in quei fianchi imponenti, e in un istante nuovamente tutto fu fuoco, arsura, smania senza fine, e anch’egli si ritrovò nudo come un suppliziato alla tortura.
Cesserà mai questo dolore? Questo strazio dei lombi, che produce seme e irriga campi, che genera figli, che rifornisce vecchiaia e cimiteri? Cesserà mai questa coazione infame al coito, questo spasmo di paradiso e nulla?
Vergogna, vergogna, non saper resistere a quest’umido richiamo, alla conchiglia ancestrale, alla molle divinità che toglie e rende ogni vigore.
Vergogna, mio signore, vergogna! Un soldato che ha paura!
In un attimo furono allacciati.
Sul tappeto persiano, i piedi si cercavano e si tendevano come quelli dei morti sulle tavole d’un anatomista.
D’un tratto lei venne in un grido potentissimo, improvviso e fragoroso. A quel grido, lancinante come stridio di gabbiano, fece eco il grido di lui.
Così — soltanto così egli seppe finalmente. Era quella la prima volta: con lui, prima, ella non l’aveva mai provato.
DA DOMENICA 11 LUGLIO
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COLORE GIALLO
FINCHÉ VENNE SERA
di Sergio Costanzo
Illustrazione di Elisabetta Cardella
Primavera 1987
Pietro aveva lasciato i bambini dai suoceri, poi era passato a prendere due pizze da asporto. Marta, sola in casa, aveva indugiato sotto la doccia, ornato le unghie con smalto scarlatto e indossato soltanto profumo.
Avevano fatto l’amore con foga, bruciando in un attimo ore d’attesa.
Lenti, molli, pacati di fronte alla pizza scaldata.
“Quindi, domattina andiamo?”
“Si.”
“Verrà, il tuo collega?”
“Si.”
Fuori dal rimessaggio, il giovane Luca sorrise garbato alla coppia.
“Ecco il mio collega.”
“Piacere, Luca.”
“Piacere mio.”
“Hai portato la macchina?”
“Sì, e otto rullini da trentasei.”
L’Arno pullulava di scafi. Rumore, manovre e richiami nell’aria ripiena di fango e benzina.
Pontili e approdi come formicai, era il gran giorno. Trofeo Piaggio, la regata della Lega Navale, 150 miglia con impegnativi bordi di bolina per raggiungere l’isola di Tino e poi lunghe corse col vento in poppa, lanciati sulla Capraia. Gli amanti della vela seguivano la gara dagli scogli, dagli arenili e, se possibile, dal mare.
Il sei cavalli girava al minimo e spingeva l’Alpa 670 dolcemente.
Marta, seduta a tribordo sulla panca del pozzetto, teneva la barra.
Un tintinnio di bracciali si univa al rumore sordo del Johnson.
La foce. A dritta gli scogli e i retoni, silenti guardiani, poi l’acqua salsa pennellata di scafi e di vele. Pietro sorrideva felice e teneva la sua Nikon in grembo come fosse un gingillo.
“Luca, mettiti a prua. Scatta e tieni sempre in bolla l’orizzonte.”
Scie, spruzzi, grida, attimi eterni. Barche come bestie aggiogate bramanti la fuga. Sul pulpito di prua, con gli occhi nel mirino, Luca non scorgeva altro che mare. Ruotava su se stesso come cavaliere in battaglia e tentava di domare beccheggi e rollii. Seguendo uno scafo lucente, aveva inquadrato Marta. Tre scatti rubati, quasi per caso.
Poi, un giro di ghiera e un voluto dettaglio sulle unghie smaltate.
Sirena. Partenza. Fragore. Onda di scafi nell’onda marina e gli specchi di poppa rincorsi da bave di schiuma. Le poche barche rimaste, come foglie portate dal vento, avevano preso rotte diverse e il silenzio era tornato sovrano.
Vele ripiegate, andatura lenta a motore, prua sulle Alpi Apuane. Teleobiettivo, scatti all’orizzonte dipinto di vele. Virata, rientro, poi all’ancora al Gombo. Nel tepore crescente, Marta aveva tolto il foulard liberando capelli castani. Come da crisalide infranta, protese il suo corpo in cerca di sole. Occhiali, testa reclinata all’indietro, collo teso e indifeso, sacro altare, sacrilego dono sulla panca di dritta. Luca, la schiena poggiata all’albero spoglio, puliva le lenti pulite e spiava il volto abbronzato di Marta.
“Preparo i panini.”
Come inghiottito, Pietro scomparve. Due passi decisi. Marta era a prua e, con fare innocente, pose cinque rubini lucenti sul piede di Luca.
Contatto, calore, paura, silente messaggio. Il piede sul piede, fermo, sicuro, offerta palese. Vicini, troppo vicini labbra sfiorate, un bacio rubato e presto interrotto.
“Luca, vieni a vedere qua sotto.”
Due brande, un bagnetto, un fornello e un letto di stoffa azzurrina incastrato contro la prora.
“È piccola ma c’è tutto. Porto su le vivande.”
Eterea ma di carne odorosa, Marta era apparsa dal nulla carezzando il vigile volto di lui.
Luca tremava “Paura?”
“No.”
Marta sorrise “Bugiardo!”
Terrore, emozione e un bacio bagnato con le unghie di fuoco aggrappate alla carne lungo la schiena.
“Saliamo a mangiare.”
Marta svaniva di nuovo. Marta fragile e forte, pudìca e perversa, novizia e padrona. Sconcerto, imbarazzo, dolore. Di malavoglia gli occhi di Luca rividero il sole.
Pranzo, risate, racconti di mare e vacanze col cuore in tumulto lasciato sul letto di prua. Pietro rideva felice mentre altri occhi di brace lanciavano dardi. Parole non dette, carezze non fatte, corpi in prigione alla luce del sole.
Vino, bicchieri, il piede di Marta in cerca di Luca. Trovato! Ancora imbarazzo e un nuovo turgore. E la voglia, il bisogno di morsi e carezze, di carne e di sesso, di graffi e di grida.
“Scendo, vado un attimo al bagno.”
Marta era sparita lanciando un ultimo sguardo.
Pietro parlava, Luca sognava. Aveva sperato in un’onda, in un mostro marino, in un violento e perverso naufragio. Vedeva un relitto, due corpi avvinghiati e un disperso.
Il lavoro, le ferie, Pietro parlava, ma Luca era altrove, sulla pelle di Marta da coprire di baci e respiri, perdizione e tormento.
Luca sognava e Marta, ora nuda in quell’intimo scafo, si leccava le labbra in cerca del sapido bacio e sfiorava i suoi seni e il suo pube, creando languore.
Spazio ristretto, voglia esplosiva, spinse fuori lo sguardo e modulò quel richiamo “Spumante! Venite?”
Luca ignaro, scese per primo. Accecato dal sole urtò il corpo bollente di Marta che, pronta, ghermì la sua preda. Mani bramose in cerca di carne e un bacio sfacciato al collega, di fronte al marito. Per Luca il terrore, un accenno di fuga e la mani robuste di Pietro che lo spingono avanti. Un unico abbraccio, tre bocche. Tre corpi incendiati, finché venne sera a placarli.
DA DOMENICA 11 LUGLIO
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COLORE BLU
MASKA
di Giulia Gennaro
Illustrazione di Giada Fedeli (gammaphi)
Avevo diciannove anni quando sono morta.
Dieci fottutissimi giorni di buio e nessuna luce bianca, quella di cui tutti mi chiedevano conto e che alla fine, per sfinimento, cominciai a dire di aver visto sul serio.
Maska mi aveva scaraventato al di là della staccionata con violenza, mentre tentavo con ogni muscolo del mio corpo di rimanere in sella e lei, giovane e ribelle almeno quanto me, impazziva all’idea di essere domata. L’avevano detto che era una cavalla difficile.
Mia madre mi proibì di tornare al maneggio, ma sapevo che Maska era lì ad aspettarmi, piena di sensi di colpa ad addensare il suo sguardo già languido di natura. Ci tornai di nascosto, una mattina di giugno, sospinta da un filo di vento. Al Boccadarno si respirava fieno e sterco, con qualche nota di salsedine. Quell’odore lo conoscevo bene, mi metteva in pace col mondo. Andai al suo box e lo trovai vuoto. Il cuore mi balzò in gola. Raggiunsi di corsa lo spiazzo sul retro e d’un tratto, in lontananza, la vidi arrivare. Più bella di sempre, lei che mi aveva spezzata, portava in groppa una donna dai capelli rossi. Si avvicinarono, mentre lei ordinava a Maska di rallentare e quella ubbidiva mansueta, come non era mai stata.
“Chi ti ha fatta entrare?”
“Ho le chiavi. Quella è la mia cavalla.”
“Ah, tu sei Anna, giusto?”
“Esatto. Tu chi sei?”
“Clara”, disse mentre scendeva e prendeva Maska per una briglia.
“Ho fatto una fatica che neanche immagini per metterla in riga!”
“Mi pare tu ci sia riuscita più di me.”
Accarezzai il suo muso dolce. Mi riconobbe subito. Con un cenno lento del capo, accolse la mia carezza come un’assoluzione.
“Accompagnaci ai box.”
Le seguii senza dire altro. Davanti a me, le sue forme morbide si muovevano al ritmo degli stivali di cuoio che andavano sollevando polvere a ogni passo.
“Tieni, fallo tu.” Mi porse la spazzola per strigliare Maska. Lo feci con calma e con amore. Lei si limitò a guardarmi.
“Hai intenzione di cavalcarla di nuovo?”
“Sono terrorizzata.”
“Più tempo aspetti, più sarà difficile ricominciare.”
“Potresti darmi una mano.”
Fu la prima volta che sorrise.
Cominciai ad andare al maneggio di nascosto. Clara mi aiutò con pazienza a trovare il coraggio e di lì a poco tornai addirittura a saltare gli ostacoli. Maska era davvero cambiata. Pareva ascoltare ogni mio comando con dedizione. Io e Clara diventammo inseparabili. Un giorno, dopo l’allenamento, ci ritrovammo sole.
Lei si avvicinò davvero, come non aveva mai fatto.
Mi offrì una lingua vellutata e dolce, che mi accese tutti i sensi.
Ci baciammo a lungo, facendo scorrere le nostre mani lungo i fianchi, poi sui seni gonfi che generosamente si inturgidivano al tocco delle nostre dita e infine lungo le cosce, che andavano schiudendosi al ritmo del nostro respiro. Fummo interrotte all’improvviso da un cigolio familiare. Ci raggiunse la luce di una torcia da cui fummo accecate.
“Che fate ancora qui?”
“Abbiamo finito tardi. Stavamo sistemando.”
“Muovetevi a uscire se non volete passare la notte nella stalla!”
L’idea, per un attimo, non mi sembrò così male.
Lo seguimmo fuori. Vittorio, custode e addetto alla pulizia delle stalle, ci scrutò da testa a piedi. Aveva uno sguardo torvo, che senz’altro sottolineava i suoi sessant’anni ormai alle porte. Ci dileguammo in fretta e quella notte mi addormentai inquieta.
Andò avanti così per un po’, ci baciavamo di nascosto e poi ognuna tornava alla propria vita, prendendosi cura di quell’intimo segreto. Un pomeriggio, nel fascio di luce dorata che illuminava la stalla, decidemmo di mettere un telo e sdraiarci sulle balle di fieno. Io presi ad accarezzarla, passando le mie dita sulla cucitura dei suoi pantaloni chiari, molto attillati.
Vidi il tessuto inumidirsi, creando un alone più scuro proprio in quel punto preciso e non seppi più aspettare. La spogliai dalla vita in giù. Affondai la mia lingua dentro di lei, con movimenti lenti e circolari.
Si abbandonò con la schiena sul telo ormai intriso di sudore e si lasciò andare nella mia bocca. Subito dopo mi spogliai anch’io e mi misi a cavalcioni su di lei. Cominciai a muovermi avanti e indietro, sfregando il mio clitoride sul suo ombelico incredibilmente perfetto. Dipinsi la pelle abbronzata del suo ventre con un velo lucido, mentre la baciavo ancora e ancora, finché venni anch’io, appoggiando la testa sulla sua spalla, mossa da piccoli e ripetuti spasmi.
Il silenzio fu squarciato da un rumore sordo e un dolore lancinante mi salì lungo la schiena per andare dritto al cervello. Persi i sensi, subito dopo aver sentito tre parole.
Tre colpi, ben assestati.
“Lesbiche di merda.”
Un piccolo proiettile nella mia spina dorsale.
Non credo che Vittorio volesse davvero ferirci con quella vecchia scacciacani. Fatto sta che morii così, a diciannove anni, per resuscitare dopo dieci giorni di coma e vedere gli occhi colpevoli di Clara, accanto a quelli tristi di mia madre.
Ma gli unici occhi che avrei voluto vedere, quella mattina in cui ripresi a vivere, erano quelli di Maska, che purtroppo non vidi mai più.
DA DOMENICA 11 LUGLIO
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COLORE VERDE
L'APERITIVO
di Anna Salvaje
Illustrazione di Lisa Marie Järlborn
Il mio dito percorreva lentamente il bordo del bicchiere di Campari. Freddo. Rosso. Brillante.
Il ragazzo era seduto rigido, le gambe ancorate alla sedia.
Nervoso, quasi diffidente.
Lo guardavo fisso.
Poi smisi di farlo e presi a seguire con gli occhi il movimento del mio dito sul bordo del bicchiere, con l’unghia rossa che grattava il vetro. Volevo apparirgli annoiata, ma ero attentissima. Percepivo il suo sguardo e la sua emozione. Ogni tanto sollevavo il viso e gli piantavo gli occhi negli occhi. Occhi di donna quarantenne, spudorata, sicura, dentro gli occhi di un ragazzo emozionato. Avevo invitato il giovane militare americano quello stesso pomeriggio, poco prima di lasciare la spiaggia.
“Ti aspetto fra un’ora al bar del Riviera Blu. Prendiamo un aperitivo, poi andiamo nella mia stanza e ti lasci annusare tutto. Oppure ci rilassiamo e guardiamo un film col condizionatore a palla” gli avevo sussurrato in inglese mentre gli restituivo il pallone che era finito vicino la mia sdraio. Il ragazzo era arrossito e aveva strabuzzato gli occhi. Forse gli sembrava impossibile che la bella signora italiana molto più grande di lui, fino a quel momento apparentemente assorta nel suo libro, lo avesse notato e gli stesse facendo quella audace proposta.
Lo avevo notato eccome!
Era il più bello del gruppo di ventenni americani che giocavano a palla sul bagnasciuga. E probabilmente anche il più timido. Me ne ero accorta dal modo in cui mi guardava mentre stavo sdraiata a leggere e prendere il sole. A differenza dei suoi commilitoni che, spavaldi, cercavano il mio sguardo e mi sorridevano, lui mi guardava in maniera meno sfrontata e chiassosa: i suoi occhi si attardavano sulle mie gambe abbronzate solo quando il mio viso era occultato dal libro che stavo leggendo e credeva non potessi vederlo.
Non sapeva che, complici gli occhiali da sole e l’esperienza maturata a sedurre decine di amanti, lo avevo spiato per tutto il pomeriggio senza che se ne accorgesse. Avevo voglia di leggerezza e avevo deciso di giocare col giovane americano, di flirtare con lui e metterlo in imbarazzo.
Così, un’ora dopo, eravamo seduti al bar del mio hotel, io truccata ed elegantemente vestita, lui con calzoncini e maglietta da spiaggia: il margine di tempo che gli avevo dato era stato troppo breve per tornare a Camp Derby a cambiarsi.
Che scena, me la vedevo da fuori. Avrei voluto essere da un’altra parte a guardarla, ed eccitarmi.
Andrew, si chiamava così, era completamente diverso dagli uomini con cui era accaduto di “distrarmi” nella settimana di vacanza solitaria che ogni anno facevo a Marina di Pisa, senza marito e figli.
E non solo per l’età. Era diverso perché, evidentemente e senza possibilità di mascherarlo, non aveva alcuna esperienza di quel genere di appuntamenti.
Percepivo imbarazzo nei suoi poco brillanti tentativi di conversazione, un po’ in americano e un po’ in un italiano stentato, e ne ero divertita. Cominciai a studiarlo nel dettaglio.
Era moro, con la carnagione chiara, gli occhi scuri, un magnifico sorriso. E spalle grandi, braccia muscolose, mani ferme. Cambiai posizione. M’inarcai in avanti per guardarlo meglio. Lo feci senza curarmi di essere discreta, in maniera volutamente sfacciata.
E più lo guardavo più mi piaceva.
Più lo guardavo più mi piacevo.
E io piacevo a lui.
Nonostante la lieve diffidenza che gli si affacciava ogni tanto sul viso, nonostante l’incredulità per l’evolversi dell’appuntamento, gli occhi e la voce non riuscivano a nascondere l’emozione.
Un paio di volte lo sorpresi a fissarmi le gambe.
Un paio di volte gli sorrisi. Ogni volta lui arrossiva e io, cazzo, mi ritrovai a pensare “Ti voglio”. Anzi, no. “Ti voglio tantissimo”.
Non lo avevo assolutamente previsto: mi aspettavo di giocare a flirtare con un ragazzino e non avevo messo in conto di quanto sa essere irresistibile il candore, quando ci si mette. Realizzai che ecco, era quello ad attrarmi così tanto: il candore misto all’eccitazione, la timidezza che aveva ceduto alla voglia di osare accettando una proposta tanto insolita. Perché forse lui si aspettava di farsi solo annusare, oppure di vedere un film, magari di restare con le palle gonfie, e altro non sperava...
Presi a raccontare dei miei incontri estivi con gli uomini, senza risparmiare i dettagli scabrosi, sorseggiando il Campari, accompagnando le storie con uno sguardo sfrontato. Regolarmente, Andrew arrossiva e abbassava gli occhi. Era tenero. Io ridevo e lo incalzavo di domande, in modo frivolo e disinvolto, buttandoci dentro qualche parola forte.
“Hai scopato tante italiane?”.
“Ti piacciono le donne più grandi?”.
“Hai mai scopato con due donne insieme?”.
Lo costringevo a guardarmi se abbassava gli occhi.
Quando ero certa di avere nuovamente catturato il suo sguardo mi zittivo, rimanevo seria, facevo assumere alla mia bocca un’espressione imbronciata e passavo distrattamente la punta della lingua sul labbro inferiore. Lui tornava ad abbassare gli occhi e aveva un fremito nel respiro, come se l’emozione che fino a quel momento aveva in gola d’improvviso si spostasse giù a gonfiargli il cazzo.
Mi piaceva da morire pensare che si sentisse così, emozionato dalla gola al cazzo. Erano stati i movimenti della lingua? I racconti e le domande? Il mio seno e le mie gambe? O era solo la sua poca esperienza con le donne? Era delizioso gustarmi il suo imbarazzo, e assaporai la mia decisione inattesa: di lì a poco gli avrei strappato ogni cellula di diffidenza e di vergogna con la lingua.
DA DOMENICA 11 LUGLIO
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COLORE ROSSO
PRIMA DEL TEMPORALE
di Maria Cristina Impagnatiello
Illustrazione di Giada Matteoli
Diana emerge dall’acqua.
La osservo brillare illuminata dagli ultimi raggi di un sole di inizio settembre, mentre sulla mia sdraio in seconda fila fingo di leggere un libro di Welsh.
All’orizzonte, oltre gli scuri e piatti frangiflutti, si staglia un temporale, bruno e gonfio. Un tuono rimbomba nell’aria, minaccia di spazzar via l’estate.
Diana accelera l’andatura, con le sue lunghe gambe solca la debole resistenza d’acqua che ancora la separa dalla battigia e, raggiunta la sabbia, affretta i suoi passi fino a raggiungere l’ombrellone accanto al mio, dove con un asciugamano tenta di coprire e scaldare la sua pelle ruvida e salata.
“L’ultimo bagno dell’estate”, le dico, cercando di incrociare i suoi occhi, ma lei rifugge il mio sguardo; un osservatore esterno lo definirebbe un eccesso di timidezza, ma io so che non è così.
E già provo nostalgia per qualcosa che so che sta per terminare, per una fine inevitabile che ha sconvolto anche l’aria, l’acqua e la gente.
Vorrei potermi alzare e far scivolare quell’asciugamano, scaldare con le mie braccia le sue, assaporare il suo fiato caldo contro il mio e convincermi che ci deve pur essere una speranza perché possa esistere un seguito a ciò che è stato.
Siamo fra i pochi rimasti in spiaggia, il sole già si nasconde tra le nuvole scure che lo inghiottono come spaventosi mangiafuoco.
I bagnini chiudono gli ombrelloni vuoti, qua e là dei ragazzi sorseggiano aperitivi, ma qualcosa si è spento: quell’euforia che all’inizio dell’estate sembrava travolgere tutti senza una logica spiegazione, e che aveva coinvolto anche noi, due giovani ignari della sua potenza, entrambi incoscienti della passione che ci avrebbe travolti a discapito delle nostre rispettive storie, che con tutte le forze ci siamo affannati a tutelare.
E ci siamo riusciti, non c’è dubbio. Una distanza glaciale si è interposta fra noi, la stessa che allontana i suoi occhi dai miei, ogni volta.
Diana ripiega l’asciugamano nella borsa e si avvia verso la sua cabina, è finita, penso, devo fare qualcosa, quasi dico, ma lei mi precede e mi sfiora un braccio, senza fermarsi.
È un invito a seguirla, o forse l’ho solo immaginato? Non lo so, ma so che vale la pena rischiare, cercarla, toccarla ancora una volta. Seguo la sua sagoma abbronzata che sale le scale che portano alle cabine fino a quando scompare dentro una di esse, lasciando la porta socchiusa.
Ormai non ho più dubbi, mi guardo intorno ma non c’è nessuno, nessuno che si accorga di noi. L’aria sta diventando più fresca, una brezza pungente si fa largo tra gli ultimi scampoli d’afa, la chiudo alle mie spalle e mi trovo di fronte a lei.
“Diana”, dico, ma lei suggella le mie labbra con le sue dita, sento il suo costume bagnato contro la mia pelle, che scivola giù insieme a quel che resta di un’inutile resistenza, lei mi spoglia e mi accoglie in ginocchio. “Mi sei mancato”, sussurra, fra un respiro e l’altro, la faccio alzare e la giro di spalle, la mia mano fra le sue gambe è subito bagnata, è la stessa che uso per accarezzare la sua faccia e che lei accoglie nella sua bocca. “Siamo collegati ora”, mi dice, mentre entro dentro di lei e so che è lì che devo stare; dentro e fuori il suo corpo caldo, mentre un vento che sa di pioggia si insinua fra le fessure legnose della cabina e si mescola agli odori dei nostri corpi, mentre lecco la sua pelle che non è più ruvida, ma sudata e calda.
È completamente mia per quegli ultimi minuti; so già che è un’illusione, una sensazione evanescente che dura quanto un tuono, ma sentire di possederla mentre stringo il suo corpo mi accende e mi spegne, mi accende e mi spegne fino a finirmi, completamente, dentro di lei.
Lentamente recupero e indosso il mio costume accartocciato, lei si infila un vestito leggero a coprire la sua pelle nuda, saperlo mi eccita ancora, provo a sfiorarla, lei mi risponde con uno sguardo stavolta davvero imbarazzato. “Usciamo”, dice, e raccoglie la sua borsa.
Le nuvole gonfie sono sempre più vicine, il vento soffia e si infuria intorno a noi. Lei ha tutti i capelli in faccia in quell’aria sempre più scura che sembra voglia proteggerci, e che invece ci allontana.
“Devo andare”, mi dice, socchiudendo le sue labbra che qualche istante prima erano piene di me, sembra un invito a un bacio ma so che è un addio. Diana si gira e si avvia verso l’uscita, senza voltarsi mai. La osservo scomparire proprio come il sole, catturata da una vita che non mi appartiene più.
Torno al mio ombrellone e raccolgo le mie cose, non c’è più nessuno intorno a me, anche la strada alle mie spalle è deserta, orfana degli ultimi incalliti sostenitori della passeggiata sul lungomare.
E mentre sento la sabbia alzarsi e il suo sapore croccante che si insinua sotto i miei denti, osservo un’ultima volta il mare argenteo e calmo, consapevole che anche lui sta per cedere alla tempesta e trasformarsi in una distesa violenta e impetuosa. Non potrai resisterle, penso, non ci riuscirai.
È meglio andare, dico a me stesso, prima che mi travolga il temporale.
DA DOMENICA 11 LUGLIO
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COLORE GRIGIO
IL MARE NEL CORPO
di Alessandro Scarpellini
Illustrazione di Diego Gabriele
Bussare alla porta poteva sembrare un privilegio e la profanazione di un luogo intimo in cui tante donne vivevano confidandosi e confondendo amori, mestruazioni, cuori feriti da fughe e amori finiti. Forse era il giardino delle Esperidi fra il Bosforo e le stelle, l’oasi e l’harem della luna.
Non sapevo se Martha avesse già avuto il ciclo, quelle cose misteriose che risentono degli sguardi delle stelle e che hanno sapore dolciastro e difficile da capire per noi che abbiamo un sesso simile alla proboscide di un piccolo elefante.
Allora conoscevo solo il gioco del triangolo con le biglie di vetro colorato, la mamma e le figlie.
Volevo invitarla a passeggiare lungo il mare che era infuriato per il vento di libeccio che stava montando ed ululava come se un branco di lupi avesse occupato la pineta poco distante e là facesse un’orgia di sensi e sangue.
Il campanello pareva un carillon sopra una scatola di cipria, un suono soffuso e sensuale.
Nessuno mi rispondeva, stavo per andare via quasi felice dell’incompiutezza del mio gesto, quando la porta si aprì e Piera mi sorrise. La zia grande, grande per modo di dire, aveva solo sette anni di più della mia ragazza che ne aveva quasi tredici e che era mezza americana per certe intricate vicende e disavventure d’amore di sua madre che alcuni apostrofavano come un’amorale donna un bel po’ puttana.
“Cosa vuoi?” sussurrò Piera con una voce profonda e strana, quasi provenisse da un altro mondo o dal Paradiso Terrestre prima del peccato originale.
“Volevo invitare Martha ad uscire con me” bisbigliai, arrossendo.
“Entra” mi disse lei.
Mi entrò dentro il suo odore, il suo profumo di donna.
Mi eccitarono i suoi lunghi capelli ricci sciolti sulla pelle nuda.
Sorrise, aveva solamente un asciugamano che la copriva in parte.
“Quanti anni hai?”
“Quattordici, domani che è il 15 Agosto” risposi io.
Non feci in tempo ad entrare che mi baciò con la lingua umida e salmastra. Rimasi con la bocca aperta quasi fossi un pesce stregato da un amo d’argento e da quel movimento lento e profondo delle sue labbra sulle mie.
“Hai mai visto una donna carezzarsi?” mi chiese maliziosa e seducente. Il mio imbarazzo la fece sorridere ed eccitare, mi prese per mano e mi portò di là dove dormiva con un’altra sorella che ora non c’era. Era sola in casa e si annoiava. Si sdraiò nuda sul letto e cominciò a mostrarmi la sua segreta farfalla di corallo, il suo sesso dischiuso che già gocciolava di piacere.
Uno strano calore mi salì dalle vene al cuore.
Mi chiamò a sé e mi disse nell’orecchio: “Lecca tutto il mio miele, ogni goccia lecca”. E io, rapito da quell’incanto,cominciai a baciarla là mentre si carezzava e smaniava, facendo brillare i suoi orecchini di pietre turchesi e sussurrandomi “Sei bravo, sei bravo, continua”.
Mi piaceva esplorare e leccare il sesso di Piera che fremeva e l’uccello si eccitava come in certi sogni che erano solo mie fantasie.
Lei se ne accorse e sorrise dopo aver volato lontano e gridato
“Io amo!”
Mi spogliò veloce, carezzandosi e baciandomi, donandomi sulla punta delle dita le gocce del suo miele salato che ancora colavano dalla fessura corallina dischiusa.
“Sarà la tua prima volta qui a Marina con me e non te lo scorderai mai” mugolò, sensuale e dolcissima.
Mi sdraiò sul letto, percorse il mio sesso con le sue labbra e la sua lingua, poi salì su di me e lo introdusse dentro quell’umido rifugio che avevo solo sognato. Sentivo il mare alzarsi per il vento e gemere quando si frangeva sugli scogli.
Mi cavalcò prima lentamente, facendomi suo, poi più velocemente fino a farmi gridare dentro lei umido dei suoi umori ed odori.
Da qualche radio fuori arrivava la voce di Janis Joplin che cantava Kozmic Blues.
Le nostre labbra, dopo, si unirono nuovamente in un intimo ed interminabile bacio.
“Sss… è un segreto fra noi” mi confidò.
Era bellissima e il mio cuore era stregato dalla magia di quello che era accaduto.
“Ora devi andare, potrebbe arrivare qualcuno” mi disse, coprendosi con un lenzuolo leggero ed azzurro mentre un rivolo di sole giocava con l’acqueo splendore dei suoi occhi verdi.
Io oramai ero suo e dell’amore.
Uscii confuso, da Via Milazzo presi per Piazza Gorgona e mi ritrovai in riva al mare che s’era un poco acquietato.
Il vento, dolcissimo ora, mi cullava e i gabbiani sfioravano le onde rimaste in cerca di cibo e luce.
Marina di Pisa era bellissima e splendeva di sole.
DA DOMENICA 11 LUGLIO
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COLORE VIOLA
LA STAR
di Fabrizio Bartelloni
Illustrazione di Nico Malvaldi
La notizia era volata veloce di bocca in bocca, come nella canzone. D’altra parte il paese d’inverno contava poche anime e la voce che una donna del posto fosse la protagonista di un film a luci rosse s’era diffusa con la stessa rapidità della variante inglese del Covid.
“Non una roba amatoriale, girata in casa”, aveva precisato Luigi ‘la Pettegola’ Barsotti, fedele avventore del barrino di Piazza delle Baleari e megafono ufficiale d’ogni teorico segreto riguardante Marina di Pisa e i suoi abitanti – ma una cosa professionale. L’hanno girato in Germania.
“Seee! O come ha fatto a anda’ in Germania con la pandemia, se’ondo te?“ aveva ribattuto Sandro Batini, alias Bastian Contrario.
“Ma poi, te l’hai visto?”
“No, me l’hanno detto.”
“E chi?” aveva chiesto in coro la tribù di pensionati, stufi di ragionare del Pisa e sciacquarsi le dentiere con il vermut, radunatasi intorno nel frattempo.
“Me l’ha detto il Giusti.”
“Ma chi, il livornese? Il Panda, insomma?” aveva domandato Batini.
La pettegola aveva annuito, poi era calato uno strano silenzio. Saverio Giusti, presidente del circolo Lavoro e Cacciucco nel quartiere Corea a Livorno era ritenuto un’autorità su due argomenti: l’antimperialismo e la masturbazione. Consumava filmati porno con voracità da piraña, e le occhiaie scure e profonde che ostentava da quasi mezzo secolo gli erano valse il soprannome.
Non era stato in grado, tuttavia, di fornire il nome della novella star del porno. Sapeva che era di Marina perché l’aveva vista spesso in giro, nei suoi sconfinamenti sul litorale pisano, ma non aveva idea di come si chiamasse.
Sui lineamenti era stato vago: «Mora, labbra
carnose, occhi mi pare verdi», mentre su altri dettagli assai più accurato: «Un gran bel paio di puppe, una quarta abbondante. E un culo bello sodo».
Aveva infine aggiunto un dettaglio che avrebbe potuto rivelarsi decisivo: aveva un gabbiano, tatuato sulla natica destra.
Nessuno dei presenti poteva procedere a un’immediata identificazione. L’ultimo di loro ad aver scopato era stato Giancarlo Pasquini, detto Cliff, perché per quindici anni, ogni sabato sera, aveva mangiato il calzone ai funghi nell’omonima pizzeria, un tempo all’angolo tra il lungomare e la piazza; e non si ricordava più se era stato nel ‘97 o nel ‘98. In paese, però, c’era qualcuno che avrebbe saputo dare, in un batter d’occhio, la risposta sicura.
Si era quindi formata una piccola delegazione, composta da Pettegola, Bastian Contrario e Cliff, che senza perder tempo si era incamminata in direzione della casa di Danilo Bronzetti, meglio conosciuto come ‘Il polpaio’, perché faceva girare la testa alle donne per poi sbattersele, nottetempo, sugli scogli. Abitava poco distante, in cima a via dell’Ordine di Santo Stefano, nei pressi della Chiesa, ma i tre, fra inciampi e zoppie, c’avevano messo mezz’ora e un rosario di bestemmie ad arrivare al portone. Era stato Cliff a trovare le energie per suonare il campanello.
“O voi cosa ci fate qui?” aveva urlato poco dopo il Polpaio, affacciato alla finestra.
“Abbiamo bisogno d’una consulenza” bofonchiò la Pettegola, ancora mezzo travagliato.
“Roba di topa!” precisò Bastian Contrario.
Il portone si aprì.
Ci vollero più di due ore per passare in rassegna tutte le marinesi, residenti, stagionali e di passaggio, che il Bronzetti sosteneva di aver battezzato. Due ore in cui seccarono due fiaschi di vino bianco, una bottiglia di vin santo, una di amaro del Capo e anche una madonnina con dentro l’acqua benedetta di Montenero che Cliff, completamente ubriaco, aveva scambiato per Centerbe.
Da Anselmo Ada a Zanetti Zaira, avevano esplorato tutto l’archivio di conquiste del padrone di casa senza riuscire tuttavia a identificare la misteriosa diva. Anche le due candidate principali, per tratti somatici ed esuberanza affettiva, Katia Landucci, ‘la più porca di via Maiorca’ e Sabrina Paganelli, leader del movimento di tutela del paesaggio Più fighe e meno dighe, erano state scartate, non avendo, a dire del Bronzetti, gabbiani inchiostrati sulle chiappe.
“Il Panda v’ha preso per il culo!” aveva quindi concluso, certo che una simile preda non potesse essergli sfuggita – Come minimo sarà una livornese. E ora levatevi di torno che fra poo arriva la mi’ moglie!
I tre se n’erano andati, un po’ delusi per il fallimento della missione, lasciando il Polpaio alticcio, pensieroso e a torso nudo sul divano.
Silvana, l’annunciata consorte, era in effetti rientrata poco dopo, e lui, su di giri per tutti quei discorsi sul filmino porno con la star locale, aveva smesso di guardare la finale di goriziana che davano in TV e l’aveva seguita fino in bagno. Era rimasto a fissarla, mentre quella si spogliava per entrare sotto la doccia, e quando si sfilò gli slip per poco non gli prese un infarto.
“O quel gabbiano sul culo da quant’è che ce l’hai?” aveva domandato, terreo in volto.
“Seeee! Saranno sei mesi che l’ho fatto. Se tu ogni tanto mi trombassi lo sapresti!” aveva risposto lei, prima di aprire il rubinetto.