MASKA
di Giulia Gennaro
Illustrazione di Giada Fedeli (gammaphi)
Avevo diciannove anni quando sono morta.
Dieci fottutissimi giorni di buio e nessuna luce bianca, quella di cui tutti mi chiedevano conto e che alla fine, per sfinimento, cominciai a dire di aver visto sul serio.
Maska mi aveva scaraventato al di là della staccionata con violenza, mentre tentavo con ogni muscolo del mio corpo di rimanere in sella e lei, giovane e ribelle almeno quanto me, impazziva all’idea di essere domata. L’avevano detto che era una cavalla difficile.
Mia madre mi proibì di tornare al maneggio, ma sapevo che Maska era lì ad aspettarmi, piena di sensi di colpa ad addensare il suo sguardo già languido di natura. Ci tornai di nascosto, una mattina di giugno, sospinta da un filo di vento. Al Boccadarno si respirava fieno e sterco, con qualche nota di salsedine. Quell’odore lo conoscevo bene, mi metteva in pace col mondo. Andai al suo box e lo trovai vuoto. Il cuore mi balzò in gola. Raggiunsi di corsa lo spiazzo sul retro e d’un tratto, in lontananza, la vidi arrivare. Più bella di sempre, lei che mi aveva spezzata, portava in groppa una donna dai capelli rossi. Si avvicinarono, mentre lei ordinava a Maska di rallentare e quella ubbidiva mansueta, come non era mai stata.
“Chi ti ha fatta entrare?”
“Ho le chiavi. Quella è la mia cavalla.”
“Ah, tu sei Anna, giusto?”
“Esatto. Tu chi sei?”
“Clara”, disse mentre scendeva e prendeva Maska per una briglia.
“Ho fatto una fatica che neanche immagini per metterla in riga!”
“Mi pare tu ci sia riuscita più di me.”
Accarezzai il suo muso dolce. Mi riconobbe subito. Con un cenno lento del capo, accolse la mia carezza come un’assoluzione.
“Accompagnaci ai box.”
Le seguii senza dire altro. Davanti a me, le sue forme morbide si muovevano al ritmo degli stivali di cuoio che andavano sollevando polvere a ogni passo.
“Tieni, fallo tu.” Mi porse la spazzola per strigliare Maska. Lo feci con calma e con amore. Lei si limitò a guardarmi.
“Hai intenzione di cavalcarla di nuovo?”
“Sono terrorizzata.”
“Più tempo aspetti, più sarà difficile ricominciare.”
“Potresti darmi una mano.”
Fu la prima volta che sorrise.
Cominciai ad andare al maneggio di nascosto. Clara mi aiutò con pazienza a trovare il coraggio e di lì a poco tornai addirittura a saltare gli ostacoli. Maska era davvero cambiata. Pareva ascoltare ogni mio comando con dedizione. Io e Clara diventammo inseparabili. Un giorno, dopo l’allenamento, ci ritrovammo sole.
Lei si avvicinò davvero, come non aveva mai fatto.
Mi offrì una lingua vellutata e dolce, che mi accese tutti i sensi.
Ci baciammo a lungo, facendo scorrere le nostre mani lungo i fianchi, poi sui seni gonfi che generosamente si inturgidivano al tocco delle nostre dita e infine lungo le cosce, che andavano schiudendosi al ritmo del nostro respiro. Fummo interrotte all’improvviso da un cigolio familiare. Ci raggiunse la luce di una torcia da cui fummo accecate.
“Che fate ancora qui?”
“Abbiamo finito tardi. Stavamo sistemando.”
“Muovetevi a uscire se non volete passare la notte nella stalla!”
L’idea, per un attimo, non mi sembrò così male.
Lo seguimmo fuori. Vittorio, custode e addetto alla pulizia delle stalle, ci scrutò da testa a piedi. Aveva uno sguardo torvo, che senz’altro sottolineava i suoi sessant’anni ormai alle porte. Ci dileguammo in fretta e quella notte mi addormentai inquieta.
Andò avanti così per un po’, ci baciavamo di nascosto e poi ognuna tornava alla propria vita, prendendosi cura di quell’intimo segreto. Un pomeriggio, nel fascio di luce dorata che illuminava la stalla, decidemmo di mettere un telo e sdraiarci sulle balle di fieno. Io presi ad accarezzarla, passando le mie dita sulla cucitura dei suoi pantaloni chiari, molto attillati.
Vidi il tessuto inumidirsi, creando un alone più scuro proprio in quel punto preciso e non seppi più aspettare. La spogliai dalla vita in giù. Affondai la mia lingua dentro di lei, con movimenti lenti e circolari.
Si abbandonò con la schiena sul telo ormai intriso di sudore e si lasciò andare nella mia bocca. Subito dopo mi spogliai anch’io e mi misi a cavalcioni su di lei. Cominciai a muovermi avanti e indietro, sfregando il mio clitoride sul suo ombelico incredibilmente perfetto. Dipinsi la pelle abbronzata del suo ventre con un velo lucido, mentre la baciavo ancora e ancora, finché venni anch’io, appoggiando la testa sulla sua spalla, mossa da piccoli e ripetuti spasmi.
Il silenzio fu squarciato da un rumore sordo e un dolore lancinante mi salì lungo la schiena per andare dritto al cervello. Persi i sensi, subito dopo aver sentito tre parole.
Tre colpi, ben assestati.
“Lesbiche di merda.”
Un piccolo proiettile nella mia spina dorsale.
Non credo che Vittorio volesse davvero ferirci con quella vecchia scacciacani. Fatto sta che morii così, a diciannove anni, per resuscitare dopo dieci giorni di coma e vedere gli occhi colpevoli di Clara, accanto a quelli tristi di mia madre.
Ma gli unici occhi che avrei voluto vedere, quella mattina in cui ripresi a vivere, erano quelli di Maska, che purtroppo non vidi mai più.
DA DOMENICA 11 LUGLIO
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