Marina Erotica trasparente

    Elena Rossi image 6483441LA TENZONE
    di Annalisa Pardi 

    Illustrazione di Elena Rossi AKA Ilgeko

     

    “Cupio dissolvi.”

    La donna gli stava di fronte, in una singolar tenzone.

    A vederla così, sembrava più una combattente che una placida signora di mezza età. Era bianca come la spuma infranta contro lo scoglio scabro di Marina di Pisa, e vermiglia sulle labbra, simili al rosseggiare d’un ippocampo.

    Nuda e flessuosa, agile nel profilo e snella alla maniera d’un levriero dalle reni falcate, tingeva della luce della sua nudità la stanza invasa dal tramonto.

    Portava i capelli intrecciati in una macchinosa torre di forcine che il poeta stesso, amando le complicazioni, aveva ideato per lei poco dopo aver fatto l’amore.

    Quel pomeriggio il sesso era stato insolitamente dolce, quasi un respiro che dalle bocche aveva pervaso le anime. Il piacere aveva portato con sé una violenta brama di morte, una voluttà d’annientamento cupa e libidinosa, un vortice di sofferenza e godimento che neppure mille scudisci avrebbero potuto provocare.

    Provava lei l’orgasmo? — Se lo chiedeva spesso Gabriele.

    Questa incertezza minava segretamente la sua spavalderia, lacerava a tratti il senso di superiorità che come un magnifico doppelgänger lo seguiva sempre da vicino.

    Aveva provato l’orgasmo? Non voleva chiederle, non sapeva capire. Proprio durante la mattina aveva utilizzato quel termine sconcio e potente, ‘orgasmo’, per designare l’estro irruento delle onde che a Bocca d’Arno si frangevano sulla roccia. Anche quello era un amplesso, una superba tenzone tra la terra e il mare; anche il mare aveva il suo bianco sperma, per fecondare di sale e di forza lo scoglio e la terra.

    E tuttavia l’onda salmastra non avrebbe mai avuto il dubbio della propria dirompente violenza: provava lei l’orgasmo?

    Il pomeriggio aveva portato lo scirocco, e l’odore dei cavalli bradi. La pineta esalava sospiri di resine, ma dopo il pranzo c’era poco da scrivere; il caldo e il sonno vincevano ogni ispirazione. Era bello starsene muti a contemplare gli alberi piegarsi, il mare di lontano scrosciare. Quasi la voce umana pareva rompesse un incanto antichissimo. Per questo si camminava in punta di piedi, come ebbri, mentre di lontano i pescatori tornavano a riva gridando successi o sconfitte. I pesci agonizzavano nelle reti, e tutto odorava di morte. Quell’odore per lui diventava eccitante. Il suo sesso si alzava con prepotenza, ogni volta — e accadeva spesso — che pensava alla morte.

    Così quel pomeriggio. 

    Lei giocava alla preda, e come al solito era stata accondiscendente su ogni aspetto. Si conoscevano così bene, ormai.

    Erano rimasti in silenzio, sotto le lenzuola tenui, pallide di trama e di consistenza, a vedere il tempo involarsi, a contemplare le loro mani congiunte, a solleticarsi i peli, a mordicchiarsi. Per due volte Gabriele aveva tentato di parlare, di dirle quanto sentisse aleggiare profondo il tocco del nulla, ma Eleonora gli aveva appoggiato sulle labbra un polpastrello che odorava del suo corpo.

    “Zitto, non parlare. Non senti che quest’Eden, questa Marina dorata, ti porterà parole e suoni nuovi?” Ma non ora, adesso taci.

    Era una guerra, spesso negli anni lo avevano ammesso sorridendosi appena, certi che l’insanità mentale avrebbe potuto facilmente scalzare per sempre quelle brevi tregue che talvolta, dopo l’amplesso, si stipulavano tra loro.

    Ma provava lei l’orgasmo? 

    Il poeta l’aveva guardata con passione, a lungo. Eppure bella non era. Andava saputa guardare. Ci voleva arte anche solo per contemplarla. In sovrappiù, era così vecchia. Le rughe le solcavano la fronte pallida, tagliavano il suo volto scomponendolo in una lunga fenditura — di modo che una parte restava in ombra mentre l’altra sfolgorava come la lamiera dell’aeroplano all’alba.

    Le ore erano colate via.

    Gabriele smaniava, voleva gettarsi alla brezza, al vento, per fondersi con il tramonto e sentire i brividi del sale sulla pelle. Voglio vedere il funerale del sole. Ma la compagna non aveva nessuna voglia di uscire, quella sera  — e aveva improvvisato una piccola scena, lì, all’ingresso della Villa delle Tempeste.

    Capricciosa e mutevole, da grande attrice quale era, si era spogliata nuda e si era appoggiata alla porta, serrandola con il suo corpo.

    Ora tutta la stanza, tutta la casa, tutto il mondo, odorava della sua carne maestosa. Quel richiamo giocoso e desolante insieme sfidò ancora una volta il poeta.

    “Che cerchi ancora?”, provò a dirle lui, sfiancato. Il sacrificio del sole lo chiamava a sé, ma la donna gli ostruiva il passaggio verso la libertà. I seni protesi allettarono le sue labbra, le mani affondarono recalcitranti in quei fianchi imponenti, e in un istante nuovamente tutto fu fuoco, arsura, smania senza fine, e anch’egli si ritrovò nudo come un suppliziato alla tortura.

    Cesserà mai questo dolore? Questo strazio dei lombi, che produce seme e irriga campi, che genera figli, che rifornisce vecchiaia e cimiteri? Cesserà mai questa coazione infame al coito, questo spasmo di paradiso e nulla?

    Vergogna, vergogna, non saper resistere a quest’umido richiamo, alla conchiglia ancestrale, alla molle divinità che toglie e rende ogni vigore.

    Vergogna, mio signore, vergogna! Un soldato che ha paura!

    In un attimo furono allacciati.

    Sul tappeto persiano, i piedi si cercavano e si tendevano come quelli dei morti sulle tavole d’un anatomista. 

    D’un tratto lei venne in un grido potentissimo, improvviso e fragoroso. A quel grido, lancinante come stridio di gabbiano, fece eco il grido di lui. 

    Così — soltanto così egli seppe finalmente. Era quella la prima volta: con lui, prima, ella non l’aveva mai provato.

     

    DA DOMENICA 11 LUGLIO
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